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Immagine del redattoreAnnaclaudia Amadori

11:55

Un raggio di sole che riscalda il viso in una fredda giornata invernale. O anche immergersi in una fredda pozza di fiume quando la calura estiva non ti lascia respirare.

L' elenco di quei momenti di pura estasi gratuita e improvvisa sarebbe infinito. Anzi, no, è infinito. Ma non è facile compilarlo, perché la confusione di tutti i giorni non lascia quasi mai il tempo di riflettere sul fatto che la vita è destinata a finire e che il tempo ha un valore che non andrebbe misurato in denaro, ma in punti felicità. Quando andai a firmare il contratto come coadiutrice amministrativa per l' Ausl mi aspettavo di essere mandata in un ufficio a fare fotocopie. E fu così, almeno finché dai piani alti non si accorsero che sarei stata più utile all'accettazione della Radioterapia. Io non sono religiosa, mi sento un'eterna ragazzina e vivo facendo il gioco della felicità di Pollyanna: se nella Bibbia ci sono almeno ottocento parole sulla gioia, allora chi siamo noi per vivere nella tristezza? E la sindrome di Pollyanna funziona anche applicata alla Radioterapia: sorrisi, abbracci, parole gentili e consolatorie non mancano mai. Sebbene io abbia avuto pazienti oncologici tra cari e familiari, sebbene ogni tanto mi trovi di fronte a persone provenienti dal mio passato, la forza della gioia non era mai venuta meno.

Almeno fino a quel giorno di giugno, quando mi sono trovata davanti Lucia. Quella Lucia che era entrata nella mia vita il primo giorno di scuola e che da allora non ne era più uscita. Quello è stato il momento in cui tutto è cambiato.


Cara Lucia, oggi hai fatto la TAC di centratura e io non c'ero, maledetta la programmazione fittissima del reparto e quel giorno di ferie che proprio non potevo spostare. Quando ho visto il tuo nome per la prima volta nelle richieste di visita ho chiuso gli occhi e incrociato le dita.

Fa' che non sia nata il giorno dopo di me. Fa' che si tratti dell'ennesimo caso di omonimia.” E invece la data era quella. Eri tu.

Quella che con il pretesto del lavoro era scomparsa negli ultimi mesi.

E invece eri qui, proprio sopra la mia testa, ricoverata sei piani più in su.

La prima volta ho potuto scegliere di non vederti: venivi da interna, è facile evitare quel percorso. Avevi scelto di non dire nulla e non volevo violare la tua riservatezza in qualche modo. Da allora qui non sei più stata nominata, ci siamo sentite per il nostro compleanno (il solito messaggio alle 23:59, in modo da comprendere il giorno giusto di entrambe) ed ero felice, perché ero certa che tu avessi sconfitto la malattia. Poi l'altro giorno una nuova richiesta . Da esterna.

Ho vomitato e sono rimasta a piangere un po' chiusa in bagno.

Ero certa di essere una donna forte, pensavo di poter combattere la tristezza sempre e comunque. Povera scema!

E così ieri sei entrata nella mia segreteria, su una sedia a rotelle che non era dell'ospedale, era la tua. Con il collare. Con un cappello a tesa larga a nascondere quella che un tempo era la tua folta chioma corvina.

Ci ho provato ad essere formale, sai? Però quando mi hai sorriso e mi hai detto “lo sapevo che ci saresti stata tu” hai fatto crollare tutte le mie barriere.

Mi sono accorta che nella stanza c'era anche tuo padre solo quando gli hai chiesto di toglierti il collare e di andare via, perché ora ci sarei stata io a prendermi cura di te.

Vieni qui e abbracciami … tanto mi ammazza il cancro prima del Covid!”.

Sei diventata così piccola e fragile, ho avuto paura di romperti. Le nostre lacrime si sono mischiate e poi ci siamo subito messe a ridere. Mi hai anche presa in giro per la pianta succulenta che c'è sulla mia scrivania, “Incredibile che tu faccia vivere qualcosa, con quel pollice nero che ti ritrovi!”.

In sala d'attesa, mentre aspettavi di parlare con il medico, ho smesso di vedere la sedia a rotelle, il cappello, quel corpo fragile. C'eravamo solo noi due, tu con i tuoi occhi da felino scrutatore ed io con la mia voce sempre troppo squillante. C'erano i pettegolezzi, i ricordi. Tu che mi hai aperto gli occhi su quello che alla fine non era un mio errore.

Quando sei uscita dalla visita ti ho accompagnata in oncologia e mi hai chiesto di scrivere qualcosa per te su Facebook, perché quando scrivo ti metto leggerezza nel cuore. Sono andata via con le lacrime agli occhi, ma tu non te ne sei accorta. Ho finto allegria, come l'ho finta quando ho lasciato quel post, perché l'ho scritto col cuore a pezzi e singhiozzando.

Stavo andando a dormire quando ho visto la notifica di messaggio sul cellulare. Eri tu, che mi hai ringraziata … mi hai chiesto di pregare per te.

Cavolo … lo sai che io non prego. Quando ho cominciato a lavorare qui la mia fede è scomparsa un pezzo alla volta, paziente dopo paziente. Non so se riuscirò a farlo. Perché sono arrabbiata e non posso credere che esista davvero un Dio che lascia soffrire i suoi figli così!

Non voglio perdermi nemmeno un giorno di quello che resta, perché mi manchi e non voglio che tu mi manchi, non finché ci sei. Voglio il tempo che ci è stato rubato, quello che non abbiamo avuto.


Quel tempo fu poco più di tre settimane.


Ciao Lucia,

Mi dispiace tanto non averti salutata ieri a fine terapia. Volevo ringraziati per le zucchine del tuo orto e per le uova. Pensavo di mandarti un messaggio, ma poi ho creduto che fosse più carino farti vedere la frittata oggi., magari ti avrebbe fatto gola e ne avresti mangiato un pezzettino.

Oggi alle 11:55 stavo coccolando un cane. In ospedale ... assurdo, vero? Ero nel mio ufficio e ho sentito abbaiare forte. Sono uscita pronta a litigare con il suo padrone, quando ho visto questo cucciolotto di cane lupo che non avrà avuto più di sei mesi legato alla grondaia davanti al mio ingresso. I suoi proprietari, mi ha detto la ragazza che lavora qui fuori, erano a fare una visita e lo hanno lasciato lì, in pieno luglio! Gli ho portato una ciotola d'acqua e gli ho fatto una carezza. Quando ho cercato di allontanarmi ha cominciato a mugolare, così sono rimasta lì, una deficiente in camice e zoccoli, accovacciata a coccolare un cane sconosciuto che avrebbe potuto azzannarmi in qualsiasi momento. Avevo anche quel vestito a fiori che ti piace tanto ... tu non lo sai, ma quando ci sei tu metto sempre vestiti esagerati, perché so che ti strappano un sorriso.

Tu quel vestito non lo hai più visto, perché non sei venuta a fare la terapia. E' stato in quel momento che ho scoperto che ti avevano ricoverata d'urgenza stanotte. Poi ho saputo. Alle 11:55 te ne sei andata via in silenzio e questa volta non tornerai.

Stasera lascerò un post felice su Facebook, di quelli che ti piacevano tanto, anche se ho la morte nel cuore. Come ho fatto quel giorno dopo la tua prima visita. E tu lo saprai che l'ho scritto per te. Perché lo so che mi leggerai, ovunque tu sia adesso, finalmente in piedi e libera dal dolore.

Ti ho anche promesso che non mi vedrai piangere mai per te … quindi perdonami se non verrò al tuo funerale. Ti penserò, con un pensiero di quelli belli, in riva al nostro mare. Spero che tuo papà mi perdonerà per questo.

Grazie per avermi donato i tuoi ultimi giorni, sei stata un dono grandissimo ed io sarò l'Elena che tu hai “visto”. Sempre. “


E' passato un anno, giorno più, giorno meno. L'ufficio è sempre lo stesso, la pianta succulenta sulla scrivania è ancora più bella. Ora le fanno compagnia un vasetto di bigliettini con pensieri positivi e un cestino di caramelle. Piccole cose felici, in un posto dove la felicità è davvero importante. Anche io sono più bella, non perché io abbia iniziato a curare unghie e capelli, ma perché sorrido di più. E chi se ne frega di quelle nuove, sottili rughe intorno alla bocca e agli occhi. E chi se ne frega se a volte sorrido così tanto che mi fanno male le guance. E pazienza se ci sono persone che pensano che sia scema. A me non importa, perché il nero della morte di Lucia mi ha regalato la capacità di vedere la vita con un filtro arcobaleno. Ho cambiato il percorso casa-lavoro, perché mi piace fermarmi a cercare le more nei rovi prima di prendere servizio. Ogni tanto annuso un fiore e mi soffermo sul piacere che il suo profumo mi provoca. Ho imparato a mangiare più lentamente, perché ogni boccone è un dono da assaporare. Nelle giornate di sole mi perdo nel blu del cielo e in quelle grigie mi faccio travolgere dalla fragranza della pioggia sulla terra asciutta. E ho rimparato quel senso di meraviglia che si perde dopo l' infanzia.

Ai pazienti questa nuova me piace, perché ho una parola gentile o di conforto per tutti, ogni volta che serve trovo il tempo di ascoltare le loro storie, che si tratti di un nuovo malessere o della comunione di un nipotino. Perché ho capito che “sentire” non sempre è abbastanza. E scambio occhiate complici con loro per integrare quei sorrisi ancora nascosti dalla mascherina, quelli che si vedono soltanto dagli occhi.

Ai colleghi questa nuova me piace, perché me ne sto un po' più sulle mie e non mi faccio più coinvolgere in discussioni futili.

Anche in famiglia questa nuova me piace, perché, anche quando sono stanca, cerco di trovare le energie per una partita a Monopoly con mio figlio o per le chiacchiere della buonanotte nel lettone e non mancano mai gesti affettuosi senza un motivo apparente, se non quello di trasmettere amore. Ho smesso anche di lamentarmi per i chili di troppo o per quel brufolo maledetto che mi spunta sulla fronte ogni volta che si presenta un'occasione importante.

Ad alcuni amici questa nuova me, invece, non piace: ho sradicato dalla mia vita i rapporti di convenienza e sono diventata più selettiva. Il tempo non è un amico, ma un dono prezioso da condividere con chi lo merita davvero.

Ogni tanto mi blocco ed i miei occhi si velano di malinconia … ma cerco di farlo durare poco, perché non voglio che Lucia, lassù, si preoccupi. Allora guardo il cielo, le racconto cose che non potrei raccontare a nessun altro e sorrido. Perché le ho promesso che non mi avrebbe vista piangere per lei. Mai.



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